NEW YORK – Nonostante il fermento rispetto alle azioni di contrasto al cambiamento climatico al World Economic Forum di quest’anno a Davos in Svizzera, le prospettive attuali sull’ambiente a livello mondiale sono cupe. Ci troviamo di fronte essenzialmente a tre ostacoli: la negazione del cambiamento climatico, un’economia volta a ridurre le emissioni dei gas serra e le politiche di mitigazione che tendono a essere altamente regressive.
Secondo il Pannello intergovernativo sul cambiamento climatico, le emissioni di CO2dovrebbero essere ridotte del 45% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2010 e dovrebbero essere definitivamente eliminate entro il 2050 per avere la minima possibilità razionale di prevenire l’aumento del riscaldamento globale di 1,5°C al di sopra dei livelli pre-industriali. “Abbiamo bisogno di successi rapidi”, ha avvertito il Programma ambientale delle Nazioni Unite nel suo ultimo Rapporto sul divario delle emissioni, “oppure l’obiettivo dell’1,5 °C definito nell’accordo di Parigi sarà al di fuori della nostra portata.”
Ma questo è in realtà un eufemismo. Anche se i Contributi promessi e definiti a livello nazionale (NDC) nell’ambito dell’accordo di Parigi del 2015 fossero mantenuti, le emissioni nel 2030 sarebbero comunque ad un livello superiore dell’8% rispetto al livello necessario. Le temperature medie globali continueranno oltretutto ad aumentare catastroficamente di 2,9-3,4 °C fino al 2100 e oltre. Per limitare l’aumento del riscaldamento globale a 2°C, i target NDC dovrebbero quindi essere triplicati e dovrebbero invece essere quintuplicati per raggiungere l’obiettivo di 1,5 °C.
Ma ciò non avverrà. L’unico momento nella storia recente in cui è parso che le emissioni di CO2 stessero diminuendo è stato nel 2014-2016 a causa di una crescita globale debole. Secondo il Progetto globale sul carbonio, da allora le emissioni sono di nuovo aumentate del 2,7% nel 2018 e dello 0,6% nel 2019. A peggiorare le cose è stato poi il fallimento della Conferenza delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico nel dicembre del 2019 (COP25) che non ha portato ad alcun nuovo impegno sul clima o ad alcuna dichiarazione di intento per il prossimo vertice di COP26 che si terrà a Glasgow.
Perché l’umanità è così riluttante a salvarsi? Innanzitutto, molte persone semplicemente non credono alle previsioni degli scienziati sul clima. Ma la negazione è il motivo meno grave dei tre principali ostacoli. Ci sarà sempre una minoranza per la quale i fatti e la logica sono delle distrazioni sgradite, tuttavia il Presidente statunitense Donald Trump dovrebbe aver capito ormai che il cambiamento climatico metterà a rischio anche il futuro profitto e la redditività della sua residenza di Mar-a-Lago.
Mentre il costo dei disastri provocati dal clima nel mondo reale continua a crescere, il rifiuto del cambiamento climatico sarà sempre meno un problema. Infatti, secondo i dati di un sondaggio condotto dall’Università di Yale a novembre 2019, il 62% dei partecipanti registrati negli Stati Uniti sosterrebbe un presidente che “dichiarasse che il riscaldamento globale è un’emergenza nazionale se il Congresso dovesse continuare a non agire”.
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La seconda sfida più importante è data dal fatto che le emissioni di gas serra sono la quintessenza dei fattori esterni dell’economia globale. Il cambiamento climatico non rispetta i confini e le emissioni di gas serra avranno nel lungo termine delle conseguenze su tutti. Ciò significa che esiste un enorme problema legato al fenomeno del free rider. Nel contesto attuale ci sarà sempre infatti la tendenza dettata dalla logica individuale a lasciare che siano gli altri a ridurre le emissioni invece di farlo direttamente. L’unico modo per risolvere questo problema è attraverso una logica collettiva o un interesse individuale illuminato. Ma visto lo stato attuale del multilateralismo, è un'impresa ardua aspettarsi uno sforzo globale reale volto a perseguire il bene comune.
Il terzo ostacolo è rappresentato dal fatto che le politiche efficaci per la riduzione delle emissioni di gas serra hanno conseguenze negative sugli indigenti in modo sporporzionato (sia a livello globale che all’interno dei paesi). Il Fondo monetario internazionale ha infatti calcolato recentemente che il prezzo globale effettivo attuale delle emissioni di CO2 è pari solo a 2 dollari per tonnellata. Per limitare il riscaldamento globale a un livello inferiore a 2°C sarebbe tuttavia necessario un prezzo medio effettivo pari a 75 dollari per tonnellata entro il 2030.
Sono d’accordo con l’economista Kenneth Rogoff dell’Università di Harvard che un’imposta uniforme sulle emissioni globali di diossido di carbonio possa essere la soluzione ideale per contrastare la sfida del cambiamento climatico, almeno dal punto di vista ambientale. Ma con una simile tassa, i prezzi medi dell’elettricità per le famiglie aumenterebbero in termini cumulativi del 45% nei prossimi dieci anni, mentre i prezzi dei carburanti del 15%. Pertanto, le conseguenze in termini distributive, anche nei paesi ricchi, sarebbero difficili da gestire come ha potuto verificare la Francia dopo aver provato a introdurre una modesta tassa sul carburante nel 2018. Aspetto ancor peggiore, dagli anni ’80, i meccanismi fiscali di ridistribuzione nelle economie più avanzate sono stati eliminati.
Inoltre, il peso più grande a livello distribuzionale di una tassa globale sul carbonio avrebbe delle conseguenze spoporzionate sui paesi poveri che mirano a uno sviluppo rapido nei prossimi decenni. Circa 570 milioni di persone che vivono nell’Africa Sub-Sahariana non hanno accesso alla fornitura di base dell’energia elettrica, mentre a livello globale la cifra è pari 1,2 miliardi circa.
Ovviamente, una crescita attesa da tempo da parte delle economie emergenti e in via di sviluppo porterà degli aumenti consistenti nel consumo di energia e di emissioni di gas serra. In India, Cina e molti altri paesi, le centrali elettriche a carbone continueranno a essere costruite per diversi anni a venire e, in questi paesi, l’energia pulita e rinnovabile eolica e solare complementerà, ma non sostituirà, i carburanti fossili. Nonostante gli sforzi fatti nel miglioramento delle tecnologie di stoccaggio delle batterie, i problemi di intermittenza associati all’energia eolica e solare implicano che i carburanti fossili e l’energia nucleare continueranno a essere utilizzate.
Prendiamo in considerazione l’India. Lo stato indiano genera il 7% delle emissioni di gas serra globali su base annuale, piazzandosi al quarto posto come emissore dopo la Cina (27%), gli Stati Uniti (5%) e l’Unione europea (10%), pur registrando un consumo di energia pro capite pari a circa un decimo di quello dell’America. Inoltre, anche se questa cifra dovesse raddoppiare entro il 2030, sarà sempre pari alla metà della percentuale registrata in Cina nel 2015.
Paesi come l’India e gli stati dell’Africa subsahariana non sacrificheranno il loro sviluppo economico per il bene della riduzione delle emissioni. L’unico modo per far quadrare il cerchio è estendere gli aiuti finanziari alle economie emergenti e in via di sviluppo che stanno sperimentando uno sviluppo inevitabile ad alta intensità energetica, in modo che possano permettersi di internalizzare i fattori esterni delle emissioni di gas serra attraverso un consistente e opportuno aumento fiscale sulle emissioni.
Purtroppo, i programmi internazionali di aiuto su larga scala sono molto impopolari. E visto che la solidarietà fiscale a livello nazionale è già carente, la solidarietà fiscale transnazionale sembra non essere un’opzione. A meno che e finché questo scenario non cambierà, la crisi esistenziale da noi provocata non potrà far altro che peggiorare.
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NEW YORK – Nonostante il fermento rispetto alle azioni di contrasto al cambiamento climatico al World Economic Forum di quest’anno a Davos in Svizzera, le prospettive attuali sull’ambiente a livello mondiale sono cupe. Ci troviamo di fronte essenzialmente a tre ostacoli: la negazione del cambiamento climatico, un’economia volta a ridurre le emissioni dei gas serra e le politiche di mitigazione che tendono a essere altamente regressive.
Secondo il Pannello intergovernativo sul cambiamento climatico, le emissioni di CO2dovrebbero essere ridotte del 45% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2010 e dovrebbero essere definitivamente eliminate entro il 2050 per avere la minima possibilità razionale di prevenire l’aumento del riscaldamento globale di 1,5°C al di sopra dei livelli pre-industriali. “Abbiamo bisogno di successi rapidi”, ha avvertito il Programma ambientale delle Nazioni Unite nel suo ultimo Rapporto sul divario delle emissioni, “oppure l’obiettivo dell’1,5 °C definito nell’accordo di Parigi sarà al di fuori della nostra portata.”
Ma questo è in realtà un eufemismo. Anche se i Contributi promessi e definiti a livello nazionale (NDC) nell’ambito dell’accordo di Parigi del 2015 fossero mantenuti, le emissioni nel 2030 sarebbero comunque ad un livello superiore dell’8% rispetto al livello necessario. Le temperature medie globali continueranno oltretutto ad aumentare catastroficamente di 2,9-3,4 °C fino al 2100 e oltre. Per limitare l’aumento del riscaldamento globale a 2°C, i target NDC dovrebbero quindi essere triplicati e dovrebbero invece essere quintuplicati per raggiungere l’obiettivo di 1,5 °C.
Ma ciò non avverrà. L’unico momento nella storia recente in cui è parso che le emissioni di CO2 stessero diminuendo è stato nel 2014-2016 a causa di una crescita globale debole. Secondo il Progetto globale sul carbonio, da allora le emissioni sono di nuovo aumentate del 2,7% nel 2018 e dello 0,6% nel 2019. A peggiorare le cose è stato poi il fallimento della Conferenza delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico nel dicembre del 2019 (COP25) che non ha portato ad alcun nuovo impegno sul clima o ad alcuna dichiarazione di intento per il prossimo vertice di COP26 che si terrà a Glasgow.
Perché l’umanità è così riluttante a salvarsi? Innanzitutto, molte persone semplicemente non credono alle previsioni degli scienziati sul clima. Ma la negazione è il motivo meno grave dei tre principali ostacoli. Ci sarà sempre una minoranza per la quale i fatti e la logica sono delle distrazioni sgradite, tuttavia il Presidente statunitense Donald Trump dovrebbe aver capito ormai che il cambiamento climatico metterà a rischio anche il futuro profitto e la redditività della sua residenza di Mar-a-Lago.
Mentre il costo dei disastri provocati dal clima nel mondo reale continua a crescere, il rifiuto del cambiamento climatico sarà sempre meno un problema. Infatti, secondo i dati di un sondaggio condotto dall’Università di Yale a novembre 2019, il 62% dei partecipanti registrati negli Stati Uniti sosterrebbe un presidente che “dichiarasse che il riscaldamento globale è un’emergenza nazionale se il Congresso dovesse continuare a non agire”.
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Il terzo ostacolo è rappresentato dal fatto che le politiche efficaci per la riduzione delle emissioni di gas serra hanno conseguenze negative sugli indigenti in modo sporporzionato (sia a livello globale che all’interno dei paesi). Il Fondo monetario internazionale ha infatti calcolato recentemente che il prezzo globale effettivo attuale delle emissioni di CO2 è pari solo a 2 dollari per tonnellata. Per limitare il riscaldamento globale a un livello inferiore a 2°C sarebbe tuttavia necessario un prezzo medio effettivo pari a 75 dollari per tonnellata entro il 2030.
Sono d’accordo con l’economista Kenneth Rogoff dell’Università di Harvard che un’imposta uniforme sulle emissioni globali di diossido di carbonio possa essere la soluzione ideale per contrastare la sfida del cambiamento climatico, almeno dal punto di vista ambientale. Ma con una simile tassa, i prezzi medi dell’elettricità per le famiglie aumenterebbero in termini cumulativi del 45% nei prossimi dieci anni, mentre i prezzi dei carburanti del 15%. Pertanto, le conseguenze in termini distributive, anche nei paesi ricchi, sarebbero difficili da gestire come ha potuto verificare la Francia dopo aver provato a introdurre una modesta tassa sul carburante nel 2018. Aspetto ancor peggiore, dagli anni ’80, i meccanismi fiscali di ridistribuzione nelle economie più avanzate sono stati eliminati.
Inoltre, il peso più grande a livello distribuzionale di una tassa globale sul carbonio avrebbe delle conseguenze spoporzionate sui paesi poveri che mirano a uno sviluppo rapido nei prossimi decenni. Circa 570 milioni di persone che vivono nell’Africa Sub-Sahariana non hanno accesso alla fornitura di base dell’energia elettrica, mentre a livello globale la cifra è pari 1,2 miliardi circa.
Ovviamente, una crescita attesa da tempo da parte delle economie emergenti e in via di sviluppo porterà degli aumenti consistenti nel consumo di energia e di emissioni di gas serra. In India, Cina e molti altri paesi, le centrali elettriche a carbone continueranno a essere costruite per diversi anni a venire e, in questi paesi, l’energia pulita e rinnovabile eolica e solare complementerà, ma non sostituirà, i carburanti fossili. Nonostante gli sforzi fatti nel miglioramento delle tecnologie di stoccaggio delle batterie, i problemi di intermittenza associati all’energia eolica e solare implicano che i carburanti fossili e l’energia nucleare continueranno a essere utilizzate.
Prendiamo in considerazione l’India. Lo stato indiano genera il 7% delle emissioni di gas serra globali su base annuale, piazzandosi al quarto posto come emissore dopo la Cina (27%), gli Stati Uniti (5%) e l’Unione europea (10%), pur registrando un consumo di energia pro capite pari a circa un decimo di quello dell’America. Inoltre, anche se questa cifra dovesse raddoppiare entro il 2030, sarà sempre pari alla metà della percentuale registrata in Cina nel 2015.
Paesi come l’India e gli stati dell’Africa subsahariana non sacrificheranno il loro sviluppo economico per il bene della riduzione delle emissioni. L’unico modo per far quadrare il cerchio è estendere gli aiuti finanziari alle economie emergenti e in via di sviluppo che stanno sperimentando uno sviluppo inevitabile ad alta intensità energetica, in modo che possano permettersi di internalizzare i fattori esterni delle emissioni di gas serra attraverso un consistente e opportuno aumento fiscale sulle emissioni.
Purtroppo, i programmi internazionali di aiuto su larga scala sono molto impopolari. E visto che la solidarietà fiscale a livello nazionale è già carente, la solidarietà fiscale transnazionale sembra non essere un’opzione. A meno che e finché questo scenario non cambierà, la crisi esistenziale da noi provocata non potrà far altro che peggiorare.
Traduzione di Marzia Pecorari