BRUXELLES – I negoziati apparentemente interminabili tra il nuovo governo greco e i suoi creditori internazionali – il Fondo monetario internazionale, la Banca centrale europea e la Commissione europea – su un nuovo accordo di prestito sono entrati in una fase pericolosa. A questo punto, infatti, qualunque errore commesso da una delle due parti rischia d'innescare un tipo d’incidente in grado di scatenare una nuova crisi in Europa.
L'Fmi sembra pronto a gettare la spugna, anche in ragione della recente rivelazione che la Grecia potrebbe riportare un piccolo disavanzo primario (al netto degli interessi) quest'anno, anziché l'avanzo considerevole previsto. Tuttavia, essendo l'economia del paese nuovamente in calo, il governo greco è convinto che l'attuale programma di rimborso del debito non stia funzionando e che, in assenza di correzioni significative, non funzionerà mai.
L’argomentazione a sostegno della richiesta della Grecia di rivedere le condizioni del bailout è il resoconto, rafforzato dagli attuali travagli economici del paese, della sua condizione di vittima di un'austerità eccessiva. Questo punto di vista, però, non tiene conto di una realtà importante, e cioè che l'austerità ha funzionato in altri paesi europei colpiti dalla crisi. In effetti, il Portogallo, l'Irlanda, la Spagna e persino Cipro stanno mostrando chiari segnali di ripresa, con una disoccupazione finalmente in discesa (anche se lentamente e da livelli alti) e la possibilità di accedere nuovamente ai mercati dei capitali.
Perché la Grecia è diversa?
La risposta si può sintetizzare in una parola: export. In tutti gli altri paesi colpiti dalla crisi (e, di fatto, nella maggior parte delle dozzine di paesi che hanno ricevuto prestiti dall'Fmi negli ultimi decenni), la crescita delle esportazioni compensa, almeno in parte, il colpo che la domanda ha ricevuto quando i governi hanno tagliato la spesa e aumentato le tasse per riportare il bilancio in pareggio.
Certo, in un'economia di grandi dimensioni che non ha problemi di finanziamenti esterni, come quella degli Stati Uniti o dell'eurozona, cercare di ridurre un deficit di bilancio potrebbe causare un calo della domanda (e, pertanto, del gettito fiscale) tale da rendere l'austerità controproducente. Ma non è questo il caso della Grecia.
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Di fatto, la Grecia stava registrando disavanzi delle partite correnti molto importanti – superiori al 10% del Pil – quando i finanziamenti esteri si esaurirono all’improvviso nel 2008-2009, costringendo a un aggiustamento della spesa pubblica. Se il governo greco non avesse realizzato tale aggiustamento, i livelli della domanda interna e dell'occupazione sarebbero sicuramente rimasti elevati, ma lo stesso sarebbe successo alle importazioni e al deficit con l'estero. Pertanto, pur avendo causato una profonda recessione, l'austerità ha permesso alla Grecia di evitare un deficit con l'estero troppo elevato, in tal modo riducendo l'entità degli aiuti necessari al paese.
L'andamento delle esportazioni è, quindi, la chiave per non cadere nella trappola dell'austerità. Il problema della Grecia è che la blanda crescita dell'export registrata ultimamente è in gran parte illusoria, poiché associata perlopiù a prodotti petroliferi. Dal momento che la Grecia non produce petrolio, ciò può soltanto significare che i raffinatori greci, che ora presentano una sovraccapacità produttiva notevole, stanno semplicemente esportando greggio d'importazione in una forma leggermente diversa. Essendo i margini di raffinazione generalmente inferiori al 5%, l'economia sta guadagnando poco valore aggiunto da tali esportazioni. Altri settori dell’export che hanno registrato un aumento, ad esempio quello dei metalli, pongono un problema simile.
Fra l’altro, il più importante export di servizi della Grecia, il trasporto marittimo, ha pochi legami reali con il resto dell'economia, visto che le aziende del settore non pagano le tasse e impiegano pochi lavoratori greci (gli equipaggi provengono da paesi caratterizzati da bassi livelli salariali). A indebolire ulteriormente il contributo economico del settore è il fatto che i prezzi delle materie prime, da cui dipendono le tariffe di spedizione, sono in calo. Nel frattempo, i manufatti, che invece creano valore aggiunto interno e occupazione, rappresentano solo una piccola quota delle esportazioni complessive del paese.
Di fatto, se misurato correttamente, il volume totale degli scambi con l'estero della Grecia ammonta a soltanto il 12% del suo Pil, molto meno di quanto ci si aspetterebbe da un'economia di dimensioni così ridotte. Ancor più stridente è il fatto che nel 2008 il deficit commerciale totale della Grecia (comprensivo sia dei beni che dei servizi) fosse addirittura più elevato, cioè pari al 13% del Pil, il che significa che, al fine di evitare un successivo calo delle importazioni, e quindi della domanda interna, le esportazioni avrebbero dovuto più che raddoppiare.
In Portogallo, invece, poiché nel 2008 il deficit commerciale ammontava a un terzo delle esportazioni, le esportazioni sarebbero dovute aumentare di un terzo per chiudere il deficit dei conti con l'estero, senza ridurre le importazioni. Da allora, il Portogallo ha complessivamente aumentato le esportazioni di oltre un quarto, così che, nonostante un lieve aumento delle importazioni dal 2007, oggi si caratterizza per un avanzo della bilancia commerciale.
In realtà, il deficit commerciale della Grecia è diminuito, ma solo perché le importazioni sono crollate. Nel frattempo, le esportazioni sono entrate in una fase di stagnazione, mentre i salari sono diminuiti di oltre il 20%. Questo, e non l'austerità, è il vero problema della Grecia. Se la Grecia avesse sperimentato la stessa crescita delle esportazioni del Portogallo (un paese simile quanto a dimensioni e reddito pro capite), non avrebbe vissuto una recessione così profonda e il gettito fiscale sarebbe stato più elevato, rendendo molto più facile per il governo raggiungere un avanzo primario di bilancio.
Ciò suggerisce che una combinazione di risanamento fiscale, salari più bassi e riforme orientate all'export avrebbe consentito alla Grecia di muovere passi verso una ripresa sostenibile. Questo approccio è stato tentato in passato e ha fallito solo una volta, cioè quando l'Argentina fece default sul suo debito estero nel 2002 interrompendo un decennio di ancoraggio del peso argentino al dollaro statunitense nel rapporto di uno a uno.
Purtroppo, la Grecia ricorda l'Argentina per due aspetti fondamentali. Entrambi i paesi hanno un settore dell'export limitato, che rende l'aggiustamento dei conti con l'estero molto più difficile, ed entrambi presentano una struttura delle esportazioni orientata alle materie prime, la cui offerta non cambierà molto anche qualora vengano attuate riforme strutturali o i salari diminuiscano.
Questo, naturalmente, non significa che la Grecia sia condannata a seguire le orme dell'Argentina verso il default, bensì evidenzia la sfida che il paese deve affrontare oggi, cioè ricostruire il proprio settore delle esportazioni da zero.
È tempo che il governo greco riconosca questo imperativo ed estenda l'ambito dei negoziati con i suoi creditori in modo da includere non solo il bilancio, ma anche delle strategie volte a stimolare le esportazioni. Prima, però, la Grecia dovrà finalmente riconoscere che l'austerità non è il nemico.
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Since Plato’s Republic 2,300 years ago, philosophers have understood the process by which demagogues come to power in free and fair elections, only to overthrow democracy and establish tyrannical rule. The process is straightforward, and we have now just watched it play out.
observes that philosophers since Plato have understood how tyrants come to power in free elections.
Despite being a criminal, a charlatan, and an aspiring dictator, Donald Trump has won not only the Electoral College, but also the popular vote – a feat he did not achieve in 2016 or 2020. A nihilistic voter base, profit-hungry business leaders, and craven Republican politicians are to blame.
points the finger at a nihilistic voter base, profit-hungry business leaders, and craven Republican politicians.
BRUXELLES – I negoziati apparentemente interminabili tra il nuovo governo greco e i suoi creditori internazionali – il Fondo monetario internazionale, la Banca centrale europea e la Commissione europea – su un nuovo accordo di prestito sono entrati in una fase pericolosa. A questo punto, infatti, qualunque errore commesso da una delle due parti rischia d'innescare un tipo d’incidente in grado di scatenare una nuova crisi in Europa.
L'Fmi sembra pronto a gettare la spugna, anche in ragione della recente rivelazione che la Grecia potrebbe riportare un piccolo disavanzo primario (al netto degli interessi) quest'anno, anziché l'avanzo considerevole previsto. Tuttavia, essendo l'economia del paese nuovamente in calo, il governo greco è convinto che l'attuale programma di rimborso del debito non stia funzionando e che, in assenza di correzioni significative, non funzionerà mai.
L’argomentazione a sostegno della richiesta della Grecia di rivedere le condizioni del bailout è il resoconto, rafforzato dagli attuali travagli economici del paese, della sua condizione di vittima di un'austerità eccessiva. Questo punto di vista, però, non tiene conto di una realtà importante, e cioè che l'austerità ha funzionato in altri paesi europei colpiti dalla crisi. In effetti, il Portogallo, l'Irlanda, la Spagna e persino Cipro stanno mostrando chiari segnali di ripresa, con una disoccupazione finalmente in discesa (anche se lentamente e da livelli alti) e la possibilità di accedere nuovamente ai mercati dei capitali.
Perché la Grecia è diversa?
La risposta si può sintetizzare in una parola: export. In tutti gli altri paesi colpiti dalla crisi (e, di fatto, nella maggior parte delle dozzine di paesi che hanno ricevuto prestiti dall'Fmi negli ultimi decenni), la crescita delle esportazioni compensa, almeno in parte, il colpo che la domanda ha ricevuto quando i governi hanno tagliato la spesa e aumentato le tasse per riportare il bilancio in pareggio.
Certo, in un'economia di grandi dimensioni che non ha problemi di finanziamenti esterni, come quella degli Stati Uniti o dell'eurozona, cercare di ridurre un deficit di bilancio potrebbe causare un calo della domanda (e, pertanto, del gettito fiscale) tale da rendere l'austerità controproducente. Ma non è questo il caso della Grecia.
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Di fatto, la Grecia stava registrando disavanzi delle partite correnti molto importanti – superiori al 10% del Pil – quando i finanziamenti esteri si esaurirono all’improvviso nel 2008-2009, costringendo a un aggiustamento della spesa pubblica. Se il governo greco non avesse realizzato tale aggiustamento, i livelli della domanda interna e dell'occupazione sarebbero sicuramente rimasti elevati, ma lo stesso sarebbe successo alle importazioni e al deficit con l'estero. Pertanto, pur avendo causato una profonda recessione, l'austerità ha permesso alla Grecia di evitare un deficit con l'estero troppo elevato, in tal modo riducendo l'entità degli aiuti necessari al paese.
L'andamento delle esportazioni è, quindi, la chiave per non cadere nella trappola dell'austerità. Il problema della Grecia è che la blanda crescita dell'export registrata ultimamente è in gran parte illusoria, poiché associata perlopiù a prodotti petroliferi. Dal momento che la Grecia non produce petrolio, ciò può soltanto significare che i raffinatori greci, che ora presentano una sovraccapacità produttiva notevole, stanno semplicemente esportando greggio d'importazione in una forma leggermente diversa. Essendo i margini di raffinazione generalmente inferiori al 5%, l'economia sta guadagnando poco valore aggiunto da tali esportazioni. Altri settori dell’export che hanno registrato un aumento, ad esempio quello dei metalli, pongono un problema simile.
Fra l’altro, il più importante export di servizi della Grecia, il trasporto marittimo, ha pochi legami reali con il resto dell'economia, visto che le aziende del settore non pagano le tasse e impiegano pochi lavoratori greci (gli equipaggi provengono da paesi caratterizzati da bassi livelli salariali). A indebolire ulteriormente il contributo economico del settore è il fatto che i prezzi delle materie prime, da cui dipendono le tariffe di spedizione, sono in calo. Nel frattempo, i manufatti, che invece creano valore aggiunto interno e occupazione, rappresentano solo una piccola quota delle esportazioni complessive del paese.
Di fatto, se misurato correttamente, il volume totale degli scambi con l'estero della Grecia ammonta a soltanto il 12% del suo Pil, molto meno di quanto ci si aspetterebbe da un'economia di dimensioni così ridotte. Ancor più stridente è il fatto che nel 2008 il deficit commerciale totale della Grecia (comprensivo sia dei beni che dei servizi) fosse addirittura più elevato, cioè pari al 13% del Pil, il che significa che, al fine di evitare un successivo calo delle importazioni, e quindi della domanda interna, le esportazioni avrebbero dovuto più che raddoppiare.
In Portogallo, invece, poiché nel 2008 il deficit commerciale ammontava a un terzo delle esportazioni, le esportazioni sarebbero dovute aumentare di un terzo per chiudere il deficit dei conti con l'estero, senza ridurre le importazioni. Da allora, il Portogallo ha complessivamente aumentato le esportazioni di oltre un quarto, così che, nonostante un lieve aumento delle importazioni dal 2007, oggi si caratterizza per un avanzo della bilancia commerciale.
In realtà, il deficit commerciale della Grecia è diminuito, ma solo perché le importazioni sono crollate. Nel frattempo, le esportazioni sono entrate in una fase di stagnazione, mentre i salari sono diminuiti di oltre il 20%. Questo, e non l'austerità, è il vero problema della Grecia. Se la Grecia avesse sperimentato la stessa crescita delle esportazioni del Portogallo (un paese simile quanto a dimensioni e reddito pro capite), non avrebbe vissuto una recessione così profonda e il gettito fiscale sarebbe stato più elevato, rendendo molto più facile per il governo raggiungere un avanzo primario di bilancio.
Ciò suggerisce che una combinazione di risanamento fiscale, salari più bassi e riforme orientate all'export avrebbe consentito alla Grecia di muovere passi verso una ripresa sostenibile. Questo approccio è stato tentato in passato e ha fallito solo una volta, cioè quando l'Argentina fece default sul suo debito estero nel 2002 interrompendo un decennio di ancoraggio del peso argentino al dollaro statunitense nel rapporto di uno a uno.
Purtroppo, la Grecia ricorda l'Argentina per due aspetti fondamentali. Entrambi i paesi hanno un settore dell'export limitato, che rende l'aggiustamento dei conti con l'estero molto più difficile, ed entrambi presentano una struttura delle esportazioni orientata alle materie prime, la cui offerta non cambierà molto anche qualora vengano attuate riforme strutturali o i salari diminuiscano.
Questo, naturalmente, non significa che la Grecia sia condannata a seguire le orme dell'Argentina verso il default, bensì evidenzia la sfida che il paese deve affrontare oggi, cioè ricostruire il proprio settore delle esportazioni da zero.
È tempo che il governo greco riconosca questo imperativo ed estenda l'ambito dei negoziati con i suoi creditori in modo da includere non solo il bilancio, ma anche delle strategie volte a stimolare le esportazioni. Prima, però, la Grecia dovrà finalmente riconoscere che l'austerità non è il nemico.
Traduzione di Federica Frasca