f6ba490446f86f380ef13b27_tb0281c.jpg Tim Brinton

Il prezzo della prevenzione delle crisi

BRUXELLES – Sono passati due anni da quando è esplosa la crisi finanziaria e solo ora iniziamo a realizzare quanto ci verrà probabilmente a costare. Andrew Haldane, membro della Banca d’Inghilterra, stima che il valore attualizzato della contrazione di output dovuta alla crisi potrebbe raggiungere il 100% del PIL mondiale.

Questa stima può sembrare incredibilmente alta, ma è relativamente prudente, visto che presuppone che solo un quarto dello shock iniziale risulterà in una riduzione permanente di output. Secondo i veri pessimisti, che credono che la maggior parte, se non la totalità,  dello shock avrà un impatto permanente sull’output, le perdite totali potrebbero essere due o tre volte più alte.

Un anno di PIL mondiale corrisponde a 60.000 miliardi di dollari, che corrispondono a cinque secoli di aiuti pubblici allo sviluppo o, per essere ancora più concreti, a dieci miliardi di classi scolastiche nei villaggi africani. Certo, questo non è un costo diretto per le casse pubbliche (i costi diretti dei piani di salvataggio delle banche sono molto più bassi), ma questa perdita di output è il vero costo di riferimento quando si consideri come ridurre la frequenza delle crisi.

Si ipotizzi che, in assenza di adeguate misure di prevenzione, una crisi dal costo di un anno di PIL mondiale si ripeta ogni 50 anni (una ipotesi approssimativa ma non irragionevole). Sarebbe allora razionale per un cittadino del mondo pagare un premio assicurativo, finché questo resti al di sotto del 2% del Prodotto Interno Lordo (100%/50).

Un modo semplice per ridurre la frequenza delle crisi è richiedere alle banche di fare affidamento più sul capitale proprio e meno sul debito in modo da poter fronteggiare maggiori perdite senza andare in bancarotta – una misura che è attualmente al vaglio a livello globale. Grazie ai rapporti appena redatti dal Financial Stability Board e dal Comitato di Basilea – uno sulle implicazioni a lungo termine dell’innalzamento dei quozienti minimi di capitale sul totale degli attivi bancari, e l’altro sui suoi effetti transitori – abbiamo adesso un'idea più precisa di quali saranno i probabili effetti di questa politica.

Il primo rapporto sottolinea che, partendo dagli attuali bassi livelli di capitalizzazione bancaria, un incremento di un punto percentuale nei quozienti di capitalizzazione dovrebbe ridurre la frequenza delle crisi di un terzo, innalzando i tassi di interesse di circa 13 punti base (l'incremento è dovuto al fatto che per le banche è più caro aumentare il capitale che emettere debito). In altre parole, il prezzo della perdita di un anno di reddito ogni 75 anni invece che ogni 50 porterebbe le banche ad aumentare i loro tassi d'interesse sui prestiti dal 4% al 4,13%. Un tale impercettibile incremento potrebbe al più spingere qualche cliente a rivolgersi a fonti alternative di finanziamento, senza probabilmente avere alcun effetto rilevante sul PIL.

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Colpisce notare come questa disposizione possa apportare tali benefici ad un costo talmente basso - molto più basso che in qualunque altro campo in cui la regolamentazione pubblica imponga requisiti prudenziali economicamente costosi. Si pensi, per esempio, all'ambiente o alla sanità pubblica, dove il principio di precauzione guida la presa delle decisioni.

Questo è quanto nel lungo termine. Ciò di cui si dibatte attualmente è se la transizione verso un livello più alto di riserve obbligatorie possa comportare costi eccessivi nel breve termine (dato che la probabile reazione delle banche sarebbe di aumentare gli spread dei prestiti e ridurne i volumi). Imporre nuovi vincoli regolamentari alle banche, alcune delle quali ancora in affanno, potrebbe spingerle a ridurre ulteriormente le operazioni di prestito, con effetti perversi sulla rapidità della ripresa economica. La velocità e la scansione temporale della stretta regolatoria devono essere valutate attentamente.

Il secondo rapporto ci avverte che l'incremento di un punto percentuale nei quozienti di capitalizzazione, se introdotto gradualmente nell'arco di quattro anni, porterebbe ad una riduzione di PIL di circa lo 0,2%. Visto che si citano spesso incrementi del 3%, l'effetto complessivo potrebbe aggirarsi intorno allo 0,6%.

Ma le incognite abbondano. Il rapporto scopre sorprendentemente che innalzare i limiti dei quozienti di capitale avrebbe effetti negativi significativamente più importanti negli Stati Uniti che nell'Eurozona, nonostante quest'ultima dipenda maggiormente da fonti di finanziamento legate alle banche. Inoltre, il rapporto presuppone che la politica monetaria possa controbilanciare parte dello shock, ipotesi che non dovrebbe valere laddove i tassi d'interessi sono già prossimi allo zero - o nella zona dell'euro dove gli effetti possono variare da Paese a Paese ma la politica monetaria è uniforme. Quindi l'impatto delle nuove regole sui Paesi dove le banche sono significativamente sottocapitalizzate potrebbe facilmente essere quattro o cinque volte superiore al dato di riferimento - diciamo nei pressi di un punto percentuale, in una prospettiva quadriennale.

Questo può ancora sembrare poco, ma non è certo una somma irrisoria se confrontato con le prospettive di crescita a breve termine del mondo sviluppato. In un periodo in cui la crescita è troppo lenta per riuscire ad intaccare l'elevato tasso di disoccupazione, ogni decimale conta.

Rallentare a tal punto la crescita, in un periodo in cui il settore privato non ha ancora concluso il suo processo di riduzione dell'indebitamento - e i governi stanno incominciando il loro - significa rischiare di entrare in un prolungato periodo di quasi-stagnazione, che potrebbe trasformare la temporanea perdita di posti di lavoro provocata dalla crisi in disoccupazione strutturale. Inoltre, standard di credito più rigidi per un arco di tempo prolungato sono destinati a colpire soprattutto le società che crescono rapidamente ma sono a corto di liquidità, con conseguenze nefaste per l'innovazione, la produttività, e in definitiva il potenziale di crescita.

Tutto questo non significa che si debba concedere alle alle banche una vacanza regolatoria e che ci si dimentichi di doverle spingere a ricapitalizzarsi. Ma ci ricorda, per prima cosa, che la tempistica è importante. I regolatori dovrebbero porre estrema attenzione a non far coincidere uno shock regolatorio con uno shock fiscale. È proprio per questa ragione che introdurre adesso dei nuovi standard regolatori, stabilendo delle scadenze lontane nel tempo, sembra essere la strategia più ragionevole.

In secondo luogo, la mera esistenza di costi di transizione, oltre alla loro entità, significa che non tutto ciò che riduce la probabilità di una crisi finanziaria merita di essere messo in pratica. Per dei politici alle prese con le attuali difficoltà, che la prossima crisi avvenga tra 50 o 75 anni può apparire un problema secondario. Di conseguenza, una qualunque riforma delle regole deve essere disegnata in maniera tale da minimizzare i costi a breve termine.

Dei quozienti più elevati di capitalizzazione e di liquidità sono solo alcune delle possibili alternative per rendere il sistema finanziare più sicuro. Altre misure - per esempio, un'assicurazione sul capitale, o una riforma dei confini all'interno del settore finanziario, alla Paul Volcker - sono degne di essere prese in considerazione.

Non c'è dubbio che il prezzo a lungo termine di assicurarsi contro le crisi meriti di essere pagato. Ma questo non significa che le riforme non debbano essere disegnate nel modo più efficiente possibile.

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