alkhativ1_Sean GallupGetty Images_el-sisi human rights record Sean Gallup/Getty Images

La tirannia del greenwashing alla COP27

HEIDELBERG – Il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi ha cercato di usare la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP27), iniziata questa settimana a Sharm El-Sheikh, per posizionare l’Egitto tra i leader globali nel campo della sostenibilità, pubblicizzando varie iniziative ambientali. Per trarre il massimo da quest’opportunità, il suo regime autocratico ha sfruttato l’evento per conferire una patina di credibilità ambientale allo scarso rispetto per i diritti umani e alle tattiche repressive che lo caratterizzano.           

Il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry, che è anche il presidente designato della COP27, ha recentemente enfatizzato l’importanza della società civile nel “responsabilizzare imprese e governi, prevenire il greenwashing e garantire una giusta transizione” verso le energie rinnovabili. Tuttavia, per quanto riguarda l’Egitto, si tratta solo di propaganda. Nella realtà, i gruppi della società civile del paese stanno affrontando una repressione senza precedenti da parte del governo. 

Da quando, nel 2014, al-Sisi assunse il potere a seguito di un colpo di stato militare avvenuto l’anno precedente, il suo regime ha calpestato componenti fondamentali della governance, come i partiti politici, il parlamento e la costituzione. Il regime ha perseguitato attivisti, etichettato gruppi di opposizione come organizzazioni terroristiche, e fatto affidamento sull’intelligence militare e altri organismi di sicurezza nazionale – guidati da membri della sua stessa famiglia – per consolidare il proprio potere. Le organizzazioni della società civile sono state paralizzate da leggi draconiane che vietano alle Ong di essere coinvolte in attività pubbliche.      

Secondo Human Rights Watch, le autorità egiziane hanno congelato i beni di sette importanti organizzazioni per i diritti umani e costretto molte altre a chiudere i battenti. Funzionari governativi hanno sciolto oltre duemila associazioni benefiche, confiscato i loro beni per presunti legami con il movimento della Fratellanza musulmana, ora messo al bando, ed esteso la repressione fino agli attivisti per l’ambiente. Questo attacco continuo alle Ong e al loro personale ha notevolmente ridotto quella che un tempo era una sfera pubblica dinamica, anche durante il trentennio della dittatura di Hosni Mubarak.       

Al-Sisi mantiene una presa ferrea sul potere grazie al controllo dell’apparato di sicurezza egiziano. Nel 2018, ha nominato Abbas Kamel, all’epoca suo capo di stato maggiore, alla guida del Servizio di intelligence generale (GIS) e affidato il ruolo di vice capo del GIS a suo figlio Mahmoud. Da allora, la dirigenza dell’intelligence controlla da dietro le quinte varie istituzioni chiave. Ha rilevato aziende di media private, le ha accorpate nella holding United Media Services e le ha trasformate in mezzi di propaganda che celebrano al-Sisi come il “guardiano” dell’Egitto, invitando gli egiziani a sostenere la “guerra al terrore” del loro leader nella penisola del Sinai.     

L’obiettivo principale del GIS è stato sempre quello di reprimere qualunque accenno di malcontento civile o di sommossa popolare. A tal fine, il regime ha introdotto due importanti riforme. Nel novembre del 2013, ha approvato la legge sulle manifestazioni, che richiede agli organizzatori di preavvisare l’intenzione di indire una manifestazione, vieta gli assembramenti non autorizzati con più di dieci persone, limita i luoghi dove possono svolgersi le manifestazioni e prevede sanzioni fino a cinque anni di reclusione. Anche partecipare a cortei pacifici comporta una multa fino a centomila sterline egiziane (pari a 4.100 dollari). Due anni dopo, nell’agosto del 2015, il regime ha varato una legge antiterrorismo che definisce in modo vago ciò che costituisce una “entità” terroristica e include una norma che criminalizza la diffusione di “false” notizie su attentati terroristici, vale a dire qualunque informazione non rilasciata dal governo.       

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Inoltre, il regime ha sradicato alberi e distrutto aree verdi, soprattutto al Cairo, teoricamente per dare nuovo impulso allo sviluppo urbanistico grazie alla costruzione ex novo di strade e ponti. In realtà, la ragione principale dietro ai progetti paesaggistici del governo è quella di rendere lo spazio pubblico un luogo ostile ai raduni politici che potrebbero trasformarsi in una rivolta di massa spontanea.    

Il GIS esercita un controllo de facto su qualunque evento politico in Egitto, dalle elezioni parlamentari e i referendum costituzionali all’approvazione di nuove leggi. Fra l’altro, è l’organo che sovrintende alla COP27. Gestendo direttamente il sistema di registrazione alla conferenza, l’intelligence egiziana ha fatto in modo di escludere le voci critiche e di far iscrivere solo le Ong filogovernative. Secondo quanto riferito, le forze di sicurezza avrebbero arrestato decine di attivisti – tra cui un attivista indiano che ha guidato una marcia dal Cairo a Sharm El-Sheikh per sensibilizzare sul cambiamento climatico – per contrastare qualunque tentativo di organizzare manifestazioni durante le due settimane della conferenza.    

Oltre undici anni dopo la rivolta di piazza Tahrir, che rovesciò la dittatura di Mubarak, e negli otto anni dal colpo di stato militare che rimosse la Fratellanza musulmana dal potere, al-Sisi ha rafforzato la sua presa sull’Egitto. Ma le sue tattiche hanno approfondito la spaccatura tra le fazioni rivali del paese, alimentando l’instabilità politica. 

I leader mondiali riunitisi a Sharm El-Sheikh non devono dimenticare la brutalità del regime di al-Sisi. Una dittatura in bilico sull’orlo dell’agitazione politica non è certo un luogo adeguato per la COP27, o per qualunque altro evento il cui obiettivo dichiarato sia quello di costruire un futuro migliore per l’umanità.   

Traduzione di Federica Frasca

Taqadum Al-Khatib è un docente di politica contemporanea e storia moderna del Medio Oriente presso l’università di Heidelberg.

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