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La politica sta condizionando la Fed?

CAMBRIDGE – Tra i primi anni ottanta del Novecento e l’inizio della crisi finanziaria nel settembre 2008, la Federal Reserve sembrò seguire una politica coerente nell’adeguare il suo tasso di interesse a breve termine più importante, quello sui fondi federali. Tre erano le condizioni essenziali del processo: il tasso di interesse nominale doveva salire più di quello d’inflazione, doveva aumentare in risposta a un consolidamento dell’economia reale, e doveva tendere a un valore normale di lungo termine.   

Di conseguenza, era possibile desumere il tasso normale a partire dal valore medio del tasso dei fondi federali nel corso del tempo. Tra il gennaio 1986 e l’agosto 2008, tale valore ammontava al 4,9%, mentre il tasso d’inflazione medio corrispondeva al 2,5% (in base al deflatore dei consumi privati), vale a dire un tasso reale medio del 2,4%.  

Il tasso reale a lungo termine può essere considerato una proprietà emergente dell’economia reale. Da un punto di vista degli investimenti e del risparmio, l’equilibrio economico compensa il vantaggio di un tasso di interesse reale basso e sicuro (che fornisce credito a basso costo per gli investitori) con quello di un tasso reale elevato (che implica maggiori rendimenti per i risparmiatori). 

Durante la Grande Recessione, il tasso sui fondi federali è sceso bruscamente, raggiungendo un livello essenzialmente pari a zero alla fine del 2008, il che era opportuno, vista la gravità della crisi. Quello che, invece, pochi si aspettavano era che il tasso dei fondi federali restasse prossimo allo zero così a lungo, cioè fino alla fine del mandato dell’allora presidente della Fed Ben Bernanke nel gennaio 2014, e oltre. 

La protratta politica dei tassi di interesse bassi della Fed, integrata dal quantitative easing (QE), sembra fuorviata, tenuto conto che l’economia si era ripresa da tempo, almeno per quanto concerne il tasso di disoccupazione. Il tasso nominale sui fondi federali non ha ricevuto alcuna spinta al rialzo fino al termine del 2016, quando c’è stato il primo intervento da parte dell’allora presidente della Fed Janet Yellen, ed è poi aumentato gradualmente fino a raggiungere il 2,4% nel dicembre 2018 sotto il suo successore, Jerome Powell. Durante tutto il periodo fino alla fine del 2016, il tasso reale negativo sui fondi federali è rimasto ampiamente al di sotto del suo valore normale di lungo termine.

È difficile considerare elevato l’odierno tasso nominale del 2,4% sui fondi federali. Con un tasso d’inflazione all’1,7%, il tasso reale dei fondi federali corrisponde allo 0,7% soltanto. Eppure la politica dei tassi di interesse “alti” della Fed è stata ferocemente attaccata da Wall Street, che l’ha ritenuta un errore e la causa della debolezza del mercato azionario tra la fine del 2018 e l’inizio del 2019. Molti commentatori economici hanno obiettato che la Fed avrebbe dovuto sospendere la “normalizzazione” della sua politica monetaria e puntare a una riduzione dei tassi di interesse.

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Tale punto di vista non è assurdo se ci si concentra esclusivamente sul consolidamento del mercato azionario. Mediamente, i tagli ai tassi di interesse tendono a stimolare il mercato azionario rendendo meno competitivi i rendimenti reali sui titoli di stato. Ma questo non significa che diminuire i tassi sia sempre la politica economica più giusta, come invece sembra pensare il presidente americano Donald Trump.

Non è un segreto che Trump consideri la performance del mercato azionario come un indicatore della propria performance, ma è stata una sorpresa vedere la Fed salire sul carrozzone della riduzione dei tassi. All’inizio del 2019, la banca aveva già manifestato l’intenzione di sospendere gli aumenti, e ora sta annunciando una serie di tagli ai tassi nel prossimo futuro. Per quanto mi riguarda, non vedo come l’improvvisa inversione di rotta della Fed sia compatibile con la politica monetaria che ha coerentemente adottato dal 1984 fino alla crisi finanziaria.     

Malgrado ciò, Powell ha tentato di giustificare l’evoluzione verso la riduzione dei tassi come un passaggio coerente con la politica precedente. Innanzitutto, egli sottolinea, a mio avviso giustamente, che l’inflazione è rimasta addomesticata. Poi, sostiene che le prospettive dell’economia potrebbero essere più fragili di quanto suggeriscano la disoccupazione bassa e la forte crescita del Pil reale osservata di recente. Forse tale argomentazione potrebbe avere un qualche fondamento, considerando la guerra commerciale di Trump e il peggioramento delle prospettive di crescita a livello globale. Pur così, non ne consegue necessariamente che i tassi vadano ridotti prima che si manifesti una debolezza economica di fatto – non ho contezza di prove convincenti che la Fed dovrebbe “anticipare” un’economia reale in fase di rallentamento.   

Il pericolo, quindi, è che la Fed possa essere tentata di ridurre i tassi a causa di pressioni esterne, partendo dal presupposto che può sempre giustificare i tagli incolpando variabili che sembravano presagire un rallentamento della crescita nel futuro. È significativo che Powell non abbia menzionato (almeno che io sappia) il fatto che i tassi nominale e reale sui fondi federali restano ampiamente al di sotto dei normali valori di lungo termine. (Questa deviazione è ancor più evidente per quanto riguarda i tassi di interesse in altri paesi avanzati, come la Germania e il Giappone.)

Il desiderio di ripristinare una normalità dovrebbe comunque spingere i tassi al rialzo, proprio come è avvenuto durante il periodo degli incrementi dei tassi tra il dicembre 2016 e il dicembre 2018. Di fatto, è stato il mancato avvio del processo di normalizzazione da parte di Bernanke in precedenza a rendere le cose più difficili del necessario per Yellen e Powell.

Sono del parere che l’allontanamento da una politica di normalizzazione nel 2019 è principalmente dovuto all’intensa opposizione a ulteriori aumenti dei tassi registrata lo scorso dicembre, quando le obiezioni più forti sono giunte, in particolare, dagli analisti dei mercati azionari e dall’amministrazione Trump.

Il senso dell’indipendenza delle banche centrali è quello di creare una politica monetaria credibile isolando i responsabili delle decisioni da tale influenza. Questo è quanto abbiamo imparato dai primi anni ottanta del Novecento, quando il presidente della Fed Paul Volcker fece salire il tasso sui fondi federali fino al livello necessario per frenare l’inflazione. La grande differenza, ovviamente, è che all’epoca il presidente Ronald Reagan appoggiava Volcker, mentre oggi Trump è il principale antagonista di Powell.

La sfida di Powell, pertanto, è mantenere una disciplina e un’indipendenza “volckeriane” a dispetto di pressioni politiche crescenti. Per ora, tuttavia, le sue prospettive di successo non sono granché.

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