fuhr5_Bloomberg_Getty Images_Biofuel Bloomberg/ Getty Images

I limiti della crescita green

BERLINO – Negli ultimi anni ha ripreso forza la voglia di costruire una “green economy” in grado di salvare il mondo dalle continue crisi economiche ed ambientali e passare a una nuova era di crescita sostenibile. Ma lo slancio nasconde una nuova era di controversie inaspettate, dove molti preannunciano situazioni simili allo status quo semplicemente passando una mano di vernice verde. Riconciliare gli imperativi ambientali ed economici sarà più difficile di quanto pensiamo?

In una parola, sì. La percezione diffusa è che l’economia green ci consentirà di liberarci dalla nostra dipendenza dai combustibili fossili, senza sacrificare la crescita. Molti sostengono che la transizione verso una green economy possa persino rilanciare una nuova crescita. Per quanto allettante possa essere questa idea, non è realistica, come dimostriamo nel nostro ultimi libro dal titolo Inside the Green Economy.

Certo, è possibile che un’economia realmente “green” abbia successo. Ma il modello che prevale oggi si focalizza su soluzioni rapide e semplici. Inoltre, riafferma la primazia dell’economia, così non riconoscendo la profondità della trasformazione richiesta.

Invece di ripensare alle nostre economie cercando di adattare il loro funzionamento ai limiti e agli imperativi ambientali, l’odierna green economy tenta di ridefinire la natura, allo scopo di adattarla agli esistenti sistemi economici. Ora aggiungiamo un valore monetario alla natura e ai nostri bilanci, definendolo “capitale naturale”, quali i servizi per ecosistemi, controbilanciando il degrado ambientale, misurato con la valuta astratta globale della metrica del carbonio. I nuovi meccanismi basati sul mercato, come il trading di crediti per la biodiversità, esemplificano tale approccio. Niente di tutto ciò previene la distruzione della natura, semplicemente riorganizza quella distruzione nelle linee di mercato.

A seguito di questo approccio restrittivo, gli attuali concetti di green economy hanno così tanti angoli ciechi che l’intera impresa può essere considerata un atto di fede. Il più potente talismano è l’innovazione tecnologica, che giustifica il fatto di attendere la comparsa di un’invenzione universale. Anche se le nuove idee e innovazioni sono ovviamente fondamentali per affrontare le sfide più complesse, siano esse ambientali o di altra natura, non sono né automatiche né inevitabili.

L’innovazione, e soprattutto l’innovazione tecnologica, è sempre forgiata dagli interessi e dalle attività dei suoi protagonisti, quindi deve essere giudicata nel suo contesto sociale, culturale e ambientale. Se i relativi attori non stanno lavorando per caldeggiare le tecnologie trasformative, i risultati dell’innovazione possono rinforzare lo status quo, spesso prolungando la vita di prodotti e sistemi che non sono adeguati a soddisfare le esigenze della società.

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Prendiamo ad esempio l’industria automobilistica. Sebbene produca sempre più motori a basso consumo, li inserisce in veicoli più grandi, più potenti e più pesanti, bruciandosi così gli incrementi di efficienza con il cosiddetto “effetto di rimbalzo”. E si trova di fronte alla tentazione di spendere più energia imparando a manipolare la lettura delle emissioni, come ha fatto Volkswagen, invece che sviluppare veicoli realmente “green”.

Neanche i biocombustibili sono la risposta. L’uso della biomassa distrugge il caos ecologico e sociale delle economie in via di sviluppo, ma di fatto prolunga la vita di un’obsoleta tecnologia a combustione.

È chiaro che non ci si può affidare ciecamente all’industria automobilistica per avviare una radicale riorganizzazione, lontana dai veicoli privati, che serve al settore dei trasporti. E questo è esattamente il punto. Se dobbiamo disaccoppiare la crescita economica dal consumo energetico e raggiungere una reale efficienza delle risorse in un mondo che conta nove miliardi di persone, per non parlare del fatto di garantire una giustizia universale, non possiamo lasciare tutto nelle mani dell’economia.

Dobbiamo vedere la trasformazione green come un impegno politico. Solo un approccio politico può gestire, attraverso istituzioni realmente rappresentative, le differenze di opinioni e di interessi, guidate da quel dibattito aperto, tipico della società civile, che è vitale per una democrazia pluralistica.

Ovviamente, non tutti i paesi sono democrazie pluralistiche. In molti che non lo sono (e anche in alcuni che affermano di esserlo), coloro che si battono per un mondo più equo a livello sociale, economico e ambientale si trovano di fronte a una grave repressione. Se intendono adempiere al ruolo indispensabile di portare avanti la trasformazione necessaria, i paesi democratici devono mettere il rispetto dei diritti umani di base, come la libertà di parola e la riunione pacifica, in cima all’agenda di politica estera. Questi diritti di base sono il fondamento normativo su cui dovranno essere negoziate le strategie trasformative.

Dopo tutto, il maggiore ostacolo alla trasformazione socio-ecologica di cui necessita il mondo non è, alla fine, di natura tecnologica; parte di ciò che serve, dall’agricoltura biologica ai sistemi di mobilità in rete che non si affidano a veicoli privati, è già a portata di mano. Il vero problema è la mancanza di volontà politica ad attuare e aumentare progressivamente queste innovazioni rispetto agli interessi economici acquisiti. La sfida consiste quindi nel superare questi interessi di minoranza e garantire la tutela di un bene pubblico più vasto – un compito che viene spesso lasciato alla società civile.

Qualcuno potrebbe sostenere che invocare una trasformazione radicale, invece di un cambiamento progressivo, sia inappropriato. In un’epoca in cui il mondo deve fronteggiare così tante sfide pressanti, dalla stagnazione economica agli sconvolgimenti politici alle massicce ondate di profughi, qualsiasi passo avanti verso la sostenibilità dovrebbe essere considerato una vittoria. Bisognerebbe accelerare e non criticare qualsiasi soluzione pragmatica e politicamente realizzabile volta a superare la crisi ambientale.

Questa visione sottovaluta però implicitamente la gravità della crisi ambientale cui deve far fronte il mondo, e presuppone un cambiamento lineare laddove la trasformazione necessaria non sarà affatto lineare. Alcune caratteristiche della green economy – la conservazione delle risorse, la transizione verso le energie rinnovabili, le specifiche innovazioni tecnologiche e gli incentivi economici efficaci, come le tasse – sono innegabilmente importanti, ma non portano a quel cambiamento su vasta scala necessario per tutelare gli interessi delle generazioni presenti e future.

Il compito che devono affrontare oggi le democrazie mondiali è di proseguire il progetto di modernità, abbracciando le ultime conoscenze in fatto di limiti del pianeta, e al contempo di incrementare la partecipazione democratica e ridurre la povertà e le ingiustizie sociali. Non è un’impresa da poco, e richiede passione e tenacia. Ma rientra nelle nostre capacità. Il primo passo è riconoscere i vincoli che la “green economy” fa gravare su pensieri e azioni.

Traduzione di Simona Polverino

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