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Il possibile ritorno dell’inflazione

NEW YORK – Il dibattito sull’inflazione nelle economie avanzate è cambiato radicalmente negli ultimi decenni. Tralasciando i problemi di natura metrica, le preoccupazioni legate agli effetti debilitanti di un’inflazione elevata e all’eccessivo potere dei mercati obbligazionari sono svanite da un pezzo, lasciando il posto al timore che un’inflazione troppo bassa possa ostacolare la crescita.   

Fra l’altro, mentre i tassi di interesse contenuti – e addirittura negativi per quasi 11mila miliardi di dollari in obbligazioni – potrebbero causare un’errata allocazione delle risorse e minare la sicurezza finanziaria delle famiglie nel lungo termine, i prezzi elevati degli asset hanno rafforzato il rischio di una futura instabilità economica. Inoltre, gli investitori ora dipendono molto (e volentieri) dalle banche centrali, mentre invece dovrebbero, per prudenza, averne più timore.  

Alla ricerca di nuovi modi per produrre un aumento dell’inflazione, le principali banche centrali hanno perlopiù favorito un approccio ciclico, facendo spesso riferimento a una domanda aggregata insufficiente. E se invece questa fosse la lente sbagliata attraverso cui osservare le condizioni attuali, e in realtà ci trovassimo nel mezzo di un processo a più fasi in cui potenti forze disinflazionistiche sul lato dell’offerta finiscono per cedere il passo al ritorno di un’inflazione elevata? In tal caso, i responsabili delle politiche monetarie e gli operatori di mercato dovrebbero considerare un paradigma opportunità-rischi piuttosto diverso da quello attualmente perseguito.

Certo è che, dopo aver quasi raggiunto il target del 2% fissato dalle banche centrali nel 2018, da allora i tassi dell’inflazione sottostante in Europa e negli Stati Uniti sono in calo. La misura convenzionale delle aspettative dei mercati rispetto all’inflazione – il livello di break-even, ovvero di pareggio, sui Treasury a 5 anni – resta ostinatamente al di sotto del target, anche se la media mobile di sei mesi per la creazione di posti di lavoro supera di quasi il 50% il livello storico necessario per assorbire nel ciclo economico i nuovi entranti nel mercato del lavoro. Sebbene il tasso di disoccupazione degli Stati Uniti (3,6%) sia al livello più basso degli ultimi cinquant’anni, il tasso di partecipazione alla forza lavoro (62,8%) resta anch’esso relativamente basso. 

Data la persistenza di un’inflazione bassa, le politiche monetarie sono rimaste ultra-elastiche per un periodo di tempo insolitamente lungo destando preoccupazioni che gli Usa o l’Europa possano subire una “giapponesizzazione”, dal momento che i consumatori rimandano gli acquisti e le aziende riducono le spese per gli investimenti. Finora, tale rischio ha determinato il perdurare dei tassi di riferimento bassi o negativi (nel caso della Banca centrale europea) e aumentato a dismisura i bilanci delle banche centrali, malgrado gli effetti potenzialmente deleteri di tali politiche sull’integrità del sistema finanziario.

In realtà, alcuni osservatori economici sono a favore del fatto che la Bce non solo mantenga i tassi di interesse negativi, ma anche riprenda gli acquisti di asset nell’ambito del programma di quantitative easing (QE). Allo stesso modo, ve ne sono alcuni che vogliono che la Federal Reserve statunitense attui un “taglio assicurativo”, nonostante gli indicatori suggeriscano che quello attuale sarà un altro anno di solida crescita economica e creazione di posti di lavoro. Nel frattempo le banche centrali hanno cominciato a guardare oltre i propri toolkit (tradizionali e non convenzionali) per individuare nuove vie per spronare l’aumento dei prezzi in tutti i comparti economici, ad esempio aumentando il target d’inflazione, sia direttamente che perseguendo un valore medio e consentendo delle deviazioni nel corso del tempo.      

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Ma un’inflazione sorprendentemente bassa come quella attuale sembra anche connessa a forze strutturali più ampie, il che significa che non trae origine soltanto da una domanda aggregata insufficiente. Le innovazioni tecnologiche – in particolare quelle relative all’intelligenza artificiale, ai big data e alla mobilità – hanno inaugurato una crisi più generalizzata dei rapporti economici tradizionali e un’erosione del potere di fissazione dei prezzi.

Prese nell’insieme, definisco queste forze strutturali “effetto Amazon/Google/Uber”. Se il modello Amazon spinge i prezzi al ribasso consentendo ai consumatori di bypassare intermediari più costosi, Google mina il potere delle imprese in materia di prezzi riducendo i costi di ricerca, mentre Uber porta beni già esistenti sul mercato, erodendo ulteriormente il potere delle imprese nel determinare i prezzi.   

L’effetto Amazon/Google/Uber ha sovralimentato un processo disinflazionistico che è iniziato con l’accelerazione della globalizzazione, portando online molta più produzione a basso costo e riducendo il potere del lavoro organizzato nelle economie avanzate (come ha fatto la gig economy più di recente). Ma se per la maggior parte continueranno, questi trend dovranno affrontare influenze inflazionistiche compensative che non hanno ancora raggiunto la massa critica: la fiacchezza del mercato del lavoro diminuisce mese dopo mese, e una maggiore concentrazione industriale sta offrendo ad alcune aziende, specialmente nel settore tecnologico, molto più potere in materia di prezzi.   

Ora, consideriamo questi trend nel contesto del mutevole panorama politico odierno. Alimentati da una comprensibile rabbia per le disparità (di reddito, ricchezza e opportunità), un numero crescente di politici sta abbracciando il populismo, con promesse di una gestione fiscale più attiva e misure volte a limitare il potere del capitale in favore della manodopera. Allo stesso tempo, aumenta la pressione politica sulle banche centrali per aggirare il canale degli asset (ovvero gli acquisti di bond nell’ambito del programma QE) e iniettare liquidità direttamente nell’economia.

Le paure sul fronte economico stanno anche alimentando una politica antiglobalizzazione. La trasformazione degli strumenti di politica economica, tra cui dazi e altre misure commerciali, in un’arma sta rischiando di frammentare le relazioni economiche e finanziarie globali, favorendo l’aumento dei prezzi e forzando un maggior livello di costosa autoassicurazione da parte di aziende e consumatori. Allo stesso tempo, man mano che le aspettative di un’inflazione costantemente bassa si consolidano, uno shock dei prezzi al rialzo potrebbe far emergere delle vulnerabilità e aumentare il rischio di errori politici e incidenti sul mercato.    

Considerando come potrebbero evolvere queste forze contrastanti nel tempo, i responsabili politici e gli investitori non dovrebbero escludere un ritorno dell’inflazione in futuro. Guardando avanti, è probabile che continueremo a vivere una fase iniziale in cui l’effetto Amazon/Google/Uber resta prevalente. Ma essa potrebbe essere seguita da una seconda fase in cui mercati del lavoro rigidi, nazionalismo populista e concentrazione industriale cominciano a controbilanciare gli effetti strutturali una tantum delle nuove tecnologie ampiamente adottate. E in una terza fase, la possibile comparsa di un’inflazione più elevata potrebbe cogliere di sorpresa responsabili politici e investitori, producendo reazioni eccessive che peggiorerebbero una situazione già negativa. 

Come perlopiù avviene quando c’è un cambio di paradigma, può esservi scarsa certezza in merito alla tempistica di questo scenario. Ma, in ogni caso, i responsabili politici nelle economie avanzate devono riconoscere che le loro prospettive d’inflazione sono soggette a un ventaglio di possibilità più ampio e dinamico di quanto finora non avessero considerato. Concentrarsi troppo sull’aspetto ciclico, anziché su quello strutturale, potrebbe mettere in serio pericolo il benessere economico e la stabilità finanziaria futuri. Più tarderemo ad allargare la mentalità prevalente, più rischieremo di passare alle prossime fasi di un processo inflazionistico in cui l’impatto di un entusiasmante evento tecnologico una tantum cede il passo a vecchie tendenze più familiari.    

Traduzione di Federica Frasca

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