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Perché la politica industriale fallisce

WASHINGTON, DC – Oggigiorno, la politica industriale è sulla bocca di tutti. Negli Stati Uniti, il presidente Joe Biden ha firmato alcune leggi che offrono incentivi e fondi per centinaia di miliardi di dollari da utilizzare per progetti di energia pulita e per la produzione interna di semiconduttori. Allo stesso modo, Donald Trump aveva scatenato una guerra commerciale contro la Cina con l’obiettivo di rilanciare l’industria statunitense. Tanto la base del partito democratico quanto quella del partito repubblicano sono favorevoli a questo passaggio dai mercati liberi a una pianificazione governativa.

Ma la politica industriale funziona sempre meglio nella teoria che nella pratica. Alcuni fattori reali sono destinati a ostacolare gli sforzi dello stato per rilanciare il settore manifatturiero e incrementare significativamente il numero di posti di lavoro.  

Le attuali politiche statunitensi sollevano tutti gli stessi vecchi dubbi sulla politica industriale già emersi in passato. Perché dovremmo aspettarci che il governo sia capace di distinguere tra interventi migliori e altri fallimentari, o di distribuire le scarse risorse disponibili meglio del mercato? Se il governo interviene nei mercati, come eviterà i cambiamenti imprevisti nella missione, il clientelismo e la corruzione?

Nella realtà, i funzionari governativi incaricati della pianificazione non dispongono dei meccanismi di controllo utili a favorire il successo di una politica industriale nel lungo termine. Biden può finanziare la produzione di semiconduttori con una firma su un foglio, ma non può agitare la bacchetta magica e creare dal nulla lavoratori qualificati da impiegare negli stabilimenti per la fabbricazione di chip. Deloitte stima che, nei prossimi anni, il settore americano dei semiconduttori registrerà una carenza di manodopera pari a 90.000 unità. Solo questo mese, la Taiwan Semiconductor Manufacturing Company ha annunciato la necessità di rallentare il ritmo di produzione in una fabbrica dell’Arizona a causa della carenza di operai con la giusta esperienza e formazione.    

I policymaker americani non possono neanche impedire agli altri paesi di reagire e di intervenire per promuovere i propri settori privilegiati. Prendiamo i dazi di Trump, che l’allora segretario al commercio Wilbur Ross aveva difeso come un esempio di concentrazione dei benefici e di distribuzione dei costi. Egli sosteneva che, sebbene ogni americano avrebbe potuto ritrovarsi a pagare 0,6 centesimi in più per una zuppa in scatola, il paese avrebbe ottenuto in cambio un’accelerazione dell’occupazione manifatturiera.    

Questa tesi sembrava implicitamente supporre che nessun altro paese avrebbe reagito. Ma secondo Aaron Flaaen e Justin Pierce, economisti della Federal Reserve, le perdite che gli Stati Uniti hanno subito in termini di occupazione manifatturiera interna a causa delle reazioni di altri paesi sono state maggiori dei benefici derivati dalla protezione delle importazioni. E poiché i dazi hanno alzato il costo dei beni intermedi utilizzati dalle aziende americane, Flaaen e Pierce hanno concluso che portare un settore da un’esposizione relativamente bassa alle tariffe a una relativamente elevata ha favorito una riduzione dell’occupazione nel settore manifatturiero pari al 2,7%.

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L’Inflation Reduction Act (IRA) di Biden prevede uno stanziamento di 370 miliardi di dollari in crediti d’imposta e altri incentivi per progetti di energia pulita negli Stati Uniti. I suoi sussidi mettono gli alleati americani in una posizione di svantaggio artificiale in settori quali la produzione di batterie e di veicoli elettrici. Com’era prevedibile, la Corea del Sud e l’Unione europea hanno risposto creando dei propri sussidi. Il presidente francese Emmanuel Macron ha avvertito che l’IRA rischia di “frammentare l’Occidente”.  

Nulla di tutto ciò è di buon auspicio. Politiche industriali ritorsive distorcono i prezzi relativi e riducono l’efficienza economica privilegiando i capricci politici rispetto ai vantaggi comparativi. Se più paesi ricorrono ai sussidi, rischiano di stemperare l’impatto dei sussidi altrove. La politica industriale brucia il denaro dei contribuenti.      

Ma un’altra ragione del fallimento delle politiche industriali è che i politici non sanno resistere alla tentazione di utilizzare fondi pubblici per portare avanti obiettivi indipendenti. Ad esempio, nel febbraio scorso, l’amministrazione Biden ha chiesto alle aziende che ricevevano sussidi federali per la produzione di semiconduttori di garantire ai propri dipendenti servizi per l’infanzia a prezzi accessibili. Ma cosa succede se non vi è un numero sufficiente di lavoratori subito disponibili a gestire asili in prossimità degli stabilimenti produttivi? Questi servizi aggiuntivi riducono l’efficacia dei sussidi.

Fra l’altro, le imprese che aderiscono più strettamente alla visione più ampia dell’amministrazione in materia di politiche sociali potrebbero acquisire una posizione privilegiata e politicamente consolidata, riducendo così la concorrenza sul mercato, scoraggiando l’ingresso di nuovi operatori e minando il dinamismo economico. Troppo spesso, gli obiettivi di politica sociale contrastano con quelli industriali. L’amministrazione Biden vuole sostenere il lavoro organizzato, ma anche accelerare la transizione ecologica. Eppure, l’organizzazione sindacale United Auto Workers sta avanzando richieste piuttosto aggressive nell’ambito dei negoziati con le case automobilistiche proprio mentre queste ultime affrontano un aumento dei costi legato al passaggio all’elettrico. Se i lavoratori decideranno di entrare in sciopero il prossimo mese, ciò indebolirà ulteriormente l’industria statunitense.       

Questo non vuol dire che la politica industriale non andrebbe mai utilizzata. L’operazione Warp Speed (che ha accelerato lo sviluppo e la distribuzione del vaccino per la Covid-19) e l’agenzia governativa DARPA (Defense Advanced Research Projects Agency) sono due ottimi esempi di come il governo sia riuscito a orientare efficacemente un settore specifico verso obiettivi specifici. “Specifico” è, in questo contesto, la parola chiave. Ripristinare l’intero settore manifatturiero (con un’attenzione particolare agli “stati in bilico” nelle elezioni presidenziali del 2024) a una qualche parvenza della sua gloria di un tempo è un obiettivo troppo vago, ampio e ambizioso, specialmente se combinato con la lotta ai cambiamenti climatici, la promozione di obiettivi sociali progressisti e la tutela della sicurezza nazionale.      

Cosa dovrebbero fare gli Usa, invece? Innanzitutto, per salvaguardare la sicurezza nazionale dovrebbero identificare un insieme ristretto di beni specifici che giustifichino realmente i controlli sulle esportazioni e sugli investimenti. In secondo luogo, dovrebbero investire fondi pubblici nella ricerca e nelle infrastrutture di base, non perché ciò creerà posti di lavoro nel settore manifatturiero, ma perché migliorerà la produttività, la crescita dei salari, l’innovazione e il dinamismo in generale.

In terzo luogo, dovrebbero adottare una carbon tax per abbassare il prezzo relativo della tecnologia green. Questo accelererebbe lo sviluppo tecnologico e permetterebbe al mercato di determinare quali sono le tecnologie più promettenti. Se l’obiettivo generale è l’adozione diffusa delle tecnologie green a livello globale, le barriere commerciali diventano particolarmente problematiche in quanto ne rallenterebbero l’impiego, soprattutto nei paesi a basso reddito, e limiterebbero il ruolo delle tecnologie green nella lotta ai cambiamenti climatici.

Infine, l’America dovrebbe investire in tutti i lavoratori, invece di cercare di tornare indietro al periodo d’oro del settore manifatturiero. Ciò significa aumentare i fondi per il reddito da lavoro in modo da sostenere la partecipazione alla forza lavoro, investire nella formazione per sviluppare le competenze e aumentare i salari, e ridurre gli ostacoli che i lavoratori incontrano a causa delle politiche sociali e delle istituzioni anticoncorrenziali del mercato del lavoro.

Una delle poche caratteristiche che riscattano il populismo americano è una rinnovata attenzione verso i lavoratori. Ma le soluzioni populiste e nazionaliste non sono destinate a funzionare. È nostro dovere nei confronti dei lavoratori concentrarci su politiche che promuovano una prosperità di massa.

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