Brexit Michael Tubi/Getty Images

L’abdicazione della sinistra

RONDA, SPAGNA – Mentre il mondo vacilla ancora per lo shock della Brexit, economisti e politici cominciano a capire di aver gravemente sottovalutato la fragilità politica della globalizzazione odierna. La rivolta popolare apparentemente in atto sta assumendo forme diverse e sovrapposte: riaffermazione delle identità locali e nazionali, richiesta di maggior controllo democratico e responsabilità, rifiuto dei partiti politici centristi e sfiducia nelle élite e negli esperti.   

Questo contraccolpo era prevedibile. Alcuni economisti, me compreso, avevano lanciato l’allarme sulle conseguenze dello spingere la globalizzazione economica oltre i confini delle istituzioni che regolano, stabilizzano e legittimano i mercati. L’iperglobalizzazione nei settori del commercio e della finanza, tesa a creare mercati mondiali perfettamente integrati, ha distrutto le società interne.

La sorpresa più grande è stata la netta virata a destra come reazione politica. In Europa, sono soprattutto i nazionalisti e i populisti nativisti ad aver conquistato la scena, mentre la sinistra avanza solo in pochi paesi, tra cui Grecia e Spagna. Negli Stati Uniti, il demagogo di destra Donald Trump è riuscito a imporsi sull’establishment repubblicano, mentre il politico di sinistra Bernie Sanders è stato incapace di superare la centrista Hillary Clinton. 

Come a malincuore ammette una nuova forma di consenso generale, la globalizzazione accentua le divisioni di classe tra coloro che possiedono le competenze e le risorse per sfruttare i mercati globali e coloro che non le possiedono. Reddito e divisioni di classe, al contrario delle divisioni identitarie basate sulla razza, l’etnia o la religione, hanno sempre rafforzato la sinistra politica. Perché, allora, la sinistra non è stata in grado di lanciare una sfida politica significativa alla globalizzazione?  

Una risposta è che l’immigrazione ha messo in ombra altri “shock” legati alla globalizzazione. La minaccia percepita dei massicci afflussi di migranti e rifugiati provenienti da paesi poveri con tradizioni culturali molto diverse accentua le divisioni identitarie che i politici di estrema destra riescono a sfruttare a proprio vantaggio. Non sorprende, dunque, che politici di destra come Trump o Marine Le Pen condiscano il proprio messaggio di riaffermazione dell’identità nazionale con un’abbondante dose di simbolismo antimusulmano. 

Le democrazie latinoamericane forniscono un eloquente contrasto. Questi paesi hanno vissuto la globalizzazione perlopiù come uno shock legato al commercio e agli investimenti esteri, anziché all’immigrazione. La globalizzazione è divenuta sinonimo delle cosiddette politiche del Consenso di Washington, e di apertura finanziaria. L’immigrazione dai paesi del Medio Oriente o dell’Africa è rimasta un fenomeno limitato e ha sempre avuto scarsa rilevanza politica. Pertanto, il contraccolpo populista in America latina – in Brasile, Bolivia, Ecuador e, con effetti più disastrosi, Venezuela – ha determinato una deriva a sinistra.   

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Una storia simile riguarda le due maggiori eccezioni alla rinascita della destra in Europa, cioè la Grecia e la Spagna. In Grecia, la principale spaccatura politica è dipesa dalle politiche di austerità imposte dalle istituzioni europee e dal Fondo monetario internazionale. In Spagna, fino a poco tempo fa la maggior parte degli immigrati proveniva da paesi latinoamericani culturalmente simili. In entrambi i paesi, l’estrema destra non ha trovato lo stesso terreno fertile che aveva altrove.  

Ma l’esperienza in America Latina e nell’Europa meridionale rivela forse una debolezza della sinistra ancor più grave: l’assenza di un programma chiaro per ridisegnare capitalismo e globalizzazione per il ventunesimo secolo. Dal partito greco di Syriza a quello brasiliano dei lavoratori, la sinistra non è riuscita a proporre idee valide sotto il profilo economico né popolari sotto quello politico, al di là di politiche migliorative come i trasferimenti di reddito.

La responsabilità di ciò va attribuita in gran parte agli economisti e tecnocrati di sinistra. Invece di contribuire a un programma di questo tipo, hanno abdicato troppo facilmente al fondamentalismo del mercato accettandone i principi di fondo e, ancor peggio, hanno guidato il movimento dell’iperglobalizzazione in momenti cruciali. 

L’insediamento della libera mobilità di capitali, soprattutto a breve termine, come norma politica ad opera dell’Unione europea, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico e l’Fmi si è rivelato con ogni probabilità la decisione più disastrosa per l’economia globale degli ultimi decenni. Come ha osservato il professor Rawi Abdelal della Harvard Business School, questo impegno era già stato portato avanti tra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta non da ideologi del libero mercato, ma da tecnocrati francesi come Jacques Delors (Commissione europea) e Henri Chavranski (Ocse), entrambi strettamente legati la partito socialista francese. Allo stesso modo, negli Stati Uniti, sono stati dei tecnocrati collegati al più keynesiano partito democratico, come Lawrence Summers, a guidare la battaglia per la deregolamentazione finanziaria.     

A quanto pare, i tecnocrati socialisti francesi, partendo dall’esperimento fallito di Mitterand sul keynesianesimo all’inizio degli anni ottanta, giunsero alla conclusione che la gestione economica interna non fosse più possibile, e che non vi fosse un’alternativa vera alla globalizzazione finanziaria. La cosa migliore che si riuscì a fare fu emanare norme a livello europeo e globale, anziché consentire a potenze come la Germania o gli Usa di imporre le proprie.

La buona notizia è che il vuoto intellettuale a sinistra è in corso di riempimento, e non c’è più motivo di cedere alla tirannia dell’ “alternativa zero”. I politici di sinistra hanno sempre meno scuse per non attingere al bacino di eminenti e “rispettabili” accademici del settore economico. 

Facciamo solo alcuni esempi: Anat Admati e Simon Johnson hanno sollecitato riforme bancarie radicali; Thomas Piketty e Tony Atkinson hanno proposto un ricco menù di politiche volte ad affrontare il problema della disuguaglianza a livello nazionale; Mariana Mazzucato e Ha-Joon Chang hanno scritto su come impiegare il settore pubblico nella promozione di un’innovazione inclusiva; Joseph Stiglitz e José Antonio Ocampo hanno proposto riforme globali; Brad DeLong, Jeffrey Sachs e Lawrence Summers (sì, proprio lui!) hanno invocato investimenti pubblici a lungo termine in infrastrutture e green economy. Con questo, abbiamo già elementi sufficienti per mettere a punto una risposta economica programmatica della sinistra.  

Una differenza cruciale tra la destra e la sinistra è che la prima prospera quanto più si allargano le spaccature nella società – “noi” contro “loro” – mentre la sinistra, quando lavora bene, supera queste divisioni con riforme tese a sanarle. Da ciò nasce il paradosso per cui le prime ondate di riforme della sinistra – keynesianesimo, socialdemocrazia, stato sociale – hanno sia salvato il capitalismo da se stesso sia reso praticamente inutili se stesse. Se continuerà a mancare una risposta di questo tipo, il campo resterà aperto a populisti e gruppi di estrema destra che, come hanno sempre fatto, trascineranno il mondo verso un destino di divisioni sempre più profonde e conflitti più frequenti.    

Traduzione di Federica Frasca

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