4369570346f86f100fd9c801_ve1215c.jpg Chris Van Es

La tripla minaccia dell’Europa

PALO ALTO – L’Europa si trova ad affrontare simultaneamente la crisi bancaria, valutaria e del debito sovrano. Le gravi difficoltà economiche e le pressioni politiche del contesto attuale gravano sulle relazioni tra cittadini, stati sovrani e istituzioni sovranazionali come la Banca Centrale Europea. Si chiede a gran voce di rinunciare alla sovranità fiscale, di avviare un processo di ricapitalizzazione del sistema bancario (al momento troppo vulnerabile da un punto di vista finanziario), e si preme affinché la Grecia, e possibilmente anche altri paesi membri dell’eurozona in difficoltà abbandonino l’euro (oppure affinché si crei un’unione monetaria di due livelli ad interim).

In questo contesto infuocato, i policymaker stanno al momento utilizzando tutti i mezzi a disposizione, compresi la BCE, il Fondo Monetario Internazionale ed il Meccanismo di Stabilità Finanziaria Europea, nel tentativo di arginare il panico finanziario, il contagio ed il rischio della recessione. Ma i funzionari stanno effettivamente procedendo nel modo giusto?

Il debito sovrano, bancario e la crisi dell’euro sono strettamente connessi. A causa del debito sovrano dei pacchetti azionari dei paesi periferici dell’eurozona, gran parte delle banche europee lievemente capitalizzate, si troverebbero ad essere insolventi se i loro beni fossero valutati secondo il mercato. Se da un lato il loro disinvestimento finalizzato alla riduzione della leva finanziaria non fa che inibire la ripresa economica, dall’altro le modifiche fiscali necessarie alla Grecia, all’Irlanda e al Portogallo, per non parlare di Spagna e Italia, finiranno per essere socialmente ed economicamente dirompenti. In questo contesto, l’inadempienza verrà quasi sicuramente accompagnata da una forte contrazione economica (in seguito al default del 2002, il PIL dell’Argentina è sceso del 15%).

Nonostante gli stress test, i fondi di salvataggio e gli innumerevoli incontri, i policymaker europei non sono riusciti a trovare una soluzione praticabile e permanente. Un eventuale fallimento potrebbe non solo creare, negli anni a venire, un enorme ostacolo alla crescita economica europea, ma anche minacciare la sopravvivenza dell’euro. Il disaccordo tra i capi di stato e la BCE riguardo alle acquisizioni da parte delle banche del prestito obbligazionario sovrano non ha fatto che aumentare l’incertezza.

Una ripresa adeguata a livello paneuropeo ed un consolidamento fiscale graduale permetterebbero ai prestiti obbligazionari sovrani di aumentare il loro valore nel tempo. Fino ad allora, le disquisizioni su chi dovrà farsi carico delle perdite, quando e come continueranno. Saranno i cittadini greci? I contribuenti tedeschi e olandesi? Gli obbligazionisti? Gli azionisti degli istituti finanziari? Inoltre, il problema principale è dato dal fatto che la modalità con cui verrà risolta questa lotta avrà conseguenze sull’entità delle perdite.

I prezzi delle azioni bancarie e lo spread Euribor-OIS (strumento per misurare lo stress finanziario) segnalano una profonda mancanza di fiducia nel debito sovrano dei paesi in difficoltà, con un recente rendimento delle obbligazioni decennali greche pari al 25%. La crisi sta interessando anche i paesi non europei, tanto che la preoccupazione per l’esposizione delle banche americane e dei fondi monetari alle banche europee in difficoltà sta danneggiano i mercati finanziari statunitensi.

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Ci sono tre approcci fondamentali per risolvere la crisi bancaria (ovvero al contempo le modifiche fiscali, il debito sovrano e l’emissione dell’euro). Il primo riguarda i tempi, la profittabilità ed infine il salvataggio. In base ad alcune stime, una riduzione del 50% nel valore del debito sovrano dei paesi periferici (ragionevole per la Grecia, ma troppo alto per gli altri paesi) porterebbe ad una perdita di 3 miliardi di dollari, opprimendo in tal modo il capitale delle banche europee. Tuttavia, nell’attuale contesto di bassi tassi d’interesse, le banche sono imprese di costante profitto in quanto si impegnano a prendere prestiti a breve termine e ad elargirne invece con scadenze a lungo termine e ad interessi più elevati, con indebitamento. Prendendo tempo potrebbero quindi riuscire a ricapitalizzarsi gradualmente trattenendo i profitti o attirando capitali esterni.

Una ripresa economica forte e durevole potrebbe garantire il successo di quest’approccio. Gran parte dei funzionari europei sperano che tale approccio, unito ad un sostegno al debito sovrano tramite consistenti fondi pubblici, possa effettivamente riuscire.

L’amministrazione Obama ha adottato questo schema implementando l’impopolare Troubled Asset Relief Program che prevedeva l’iniezione di centinaia di miliardi di dollari pubblici nel sistema bancario (gran parte dei quali sono stati ripagati). Ciò nonostante alcune banche americane, tra cui la Bank of America e la Citi, sono ancora vulnerabili e presentano beni tossici (per gran parte legati ai mutui immobiliari) nei loro bilanci.

Il secondo approccio comporta una soluzione rapida. Ma lasciare che le banche discutibili si ricapitalizzino gradualmente posticipando la risoluzione del debito cattivo, probabilmente tramite i Brady bonds europei (obbligazioni zero coupon tramite le quali le banche statunitensi ed i paesi sudamericani riuscirono, negli anni ’90, a concordare una parziale riduzione del valore nominale) potrebbe non funzionare nel caso in cui l’entità delle perdite risultasse troppo elevata o la ripresa troppo debole. Una risoluzione ancor più rapida potrebbe quindi essere necessaria per evitare che le banche zombie infettino il sistema finanziario.

Nel periodo compreso tra il 1989 ed il 1995, la US Resolution Trust Corporation chiuse in tempi rapidi 1000 banche insolventi e gli istituti Saving and Loan per evitare che danneggiassero gli istituti sani. Rapportato al contesto economico attuale, beni del valore di 1,25 miliardi di dollari furono venduti con un recupero dell’80% del loro valore. In questo modo, il sistema finanziario venne risanato in tempi rapidi. Tale approccio richiede buon giudizio e determinazione nel distinguere gli istituti insolventi da quelli sani.

Infine, c’è la via del capitale pubblico. Se la ricapitalizzazione guidata dal mercato risulta essere troppo lenta e la chiusura degli istituti in via di fallimento impossibile, un’alternativa ancora più estrema è quella di iniettare in modo diretto il capitale pubblico nelle banche (invece di farlo indirettamente sostenendo il valore del debito sovrano di cui sono in possesso). Quest’approccio permette di evitare la corsa agli sportelli in quanto le banche che dispongono di un capitale maggiore sono in una posizione più sicura. Ma quanto capitale pubblico dovrebbe essere utilizzato e in che termini? Sarebbe preferibile utilizzare il capitale privato, ma poiché c’è il rischio che venga spazzato via dagli interventi pubblici, gli investitori useranno ancor più cautela. Nel frattempo, i regolatori continuano ad aumentare il rapporto di capitale delle banche.

Gli europei, sia creditori che debitori, devono affrontare il problema bancario in modo diretto e insieme alle questioni legate all’euro, al debito sovrano e alle modifiche fiscali. Far finta che le banche che hanno superato gli stress test possano rimanere aperte a tempo indefinito implicando solo pochi danni collaterali è una pericolosa illusione.

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